Fotografare per conoscere e conoscersi – Intervista ad Anna Di Prospero
Ha 26 anni, vive a Sermoneta ed è una delle fotografe emergenti più promettenti del momento. Anna Di Prospero è molto conosciuta in Italia per i suoi scatti, ma si è fatta da tempo notare anche all’estero, tanto che sono diversi i riconoscimenti di fama internazionale che ha già conquistato per il suo stile pulito, dalle luci avvolgenti e dai toni poetici.
Vorrei precisare che io e Anna ci conosciamo dagli anni del ginnasio, ci sentiamo o vediamo tutti i giorni e non perdiamo occasione per fare un viaggio insieme, ma questo non sarà un intervento di parte, e potrete giudicarlo voi, dalle sue parole ma soprattutto dalle sue fotografie, che parlano da sole.
Anna e la fotografia si incontrano al liceo, anni in cui la sua formazione avviene prevalentemente da autodidatta. Dopo il diploma di maturità classica, viene catturata dal fenomeno Flickr: si iscrive al social network e posta i suoi scatti, che da subito conquistano la platea del web. Abbandona gli studi in storia dell’arte per iscriversi all’Istituto europeo di design (IED) dopo aver vinto una borsa di studio. Siamo nel 2008 e arriva già il primo successo, la possibilità di esporre all’interno del “Festival della fotografia di Roma” con una personale nella Galleria Gallerati, grazie all’interessamento alle sue opere dell’allora sindaco di Roma Walter Veltroni. Da qui le esposizioni si susseguono, da alcune minori ad altre più importanti. Dopo essersi diplomata in fotografia prosegue gli studi con Giorgia Fiorio e Gabriel Bauret frequentando il loro Reflection Masterclass. Nel 2011 riceve un importante riconoscimento in terra americana, ritirando a New York il Discovery of the year (“Scoperta dell’anno”) ai “Lucie Awards“. Non stiamo parlando di un semplice concorso, ma di una manifestazione di livello globale che per importanza viene paragonata alla celebre cerimonia cinematografica degli Oscar, tanto da essere appunto soprannominata ‘Oscar della fotografia’. Partiamo proprio da qui.
Nel 2011 sei tornata vincitrice da New York, ma avevi già avuto un rapporto importante con questa città. Durante gli anni dello IED hai avuto la possibilità per un semestre di frequentare la School of Visual Arts di New York. In cosa differiscono i due istituti e come ti hanno formato?
A Roma la formazione è stata incentrata molto sulla tecnica, e questo per me è stato indispensabile in quanto mi ha aiutato a colmare tutte le mie lacune. In America c’è stato uno studio più artistico-culturale, e soprattutto ho avuto larga libertà di sperimentazione, senza alcun impedimento. Per esempio a scuola mi sono trovata a seguire dei corsi che in Italia neanche esistono, come quello sul nudo e sul sesso. In questo caso ho presentato dei lavori di ricerca nati navigando su siti come chatroulette.com. Stando a New York ho avuto inoltre la possibilità di partecipare a due collettive alle quali ho avuto accesso tramite concorso, una incentrata sull’autoritratto, l’altra dal tema “contrasti”, dedicata alla fotografia femminile. Questa è stata una grande fortuna, ho potuto confrontarmi con un contesto totalmente diverso da quello italiano.
L’autoritratto è lo strumento che utilizzi per esplorare te stessa. Questo è quello che si evince dalle tue prime opere, ma nell’ultima serie, intitolata With you, ti fotografi con altre persone, familiari e amici, ed è il legame con gli altri a diventare protagonista dello scatto. Vuoi parlarci di questo tuo lavoro che segna un punto di svolta nella tua ricerca?
Questa serie è concepita in capitoli. Il primo consiste nel fotografarmi con la mia famiglia. Tutto nasce dal desiderio di approfondire i miei legami più intimi. In ogni immagine ho analizzato il rapporto familiare lasciando che si trasformasse in fonte ispiratrice. La parte più importante di questo lavoro è stato per me il coinvolgimento ottenuto durante gli scatti, grazie al quale ho scoperto aspetti sconosciuti dei miei parenti. Nel secondo, ho allargato la ricerca ritraendomi con i miei amici. In entrambi i casi tutto è giocato sull’importanza del gesto e su quello che questo significa nel rapporto fra me e la persona che mi è accanto.
Pochi giorni fa hai pubblicato le foto della prima parte del terzo capitolo di questo progetto. Questa volta non ci sono parenti o amici al tuo fianco, ma gli “strangers”, gli sconosciuti. Come mai il bisogno di fotografarti con loro, e di cosa ti ha arricchita questa esperienza?
Questo lavoro è un vero e proprio percorso di conoscenza che ho intrapreso verso persone a me estranee. Gli sconosciuti delle mie foto sono persone che non avevo mai avuto modo di conoscere nonostante avessimo in comune dei legami affettivi. In ogni scatto ho cercato di mettere in risalto aspetti della loro personalità per fare in modo che anche chi osserva le foto possa conoscere un po’ di loro.
- Un’altra serie che stai portando avanti è quella intitolata Urban self-portrait, in cui ti ritrai in città, prima Latina e poi il resto del mondo. Come scegli le tue mete?
Questa ricerca è dettata dal mio interesse per l’architettura contemporanea, alla quale mi sono avvicinata frequentando il corso di laurea in storia dell’arte. Il primo approccio è stato appunto con Latina, poi ho cominciato a scegliere le mie mete all’estero. Ci sono delle architetture che personalmente ritengo più interessanti di altre e sono proprio queste che voglio ritrarre. Sono molto affascinata dal lavoro di Frank Gehry, con i suoi edifici mi sono fotografata a Bilbao, Düsseldorf e Basilea.
Altri artisti a cui ti ispiri o dai quali ti senti influenzata?
Mi piacciono molto i fotografi Gregory Crewdson, Harry Callahan e Stephen Shore, ma mi capita di essere ispirata anche dall’arte in generale, specialmente dalla pittura. Sicuramente fra i pittori che prediligo ci sono Edward Hopper, James Tissot, Jack Vettriano e mi piace anche Caspar Friedrich. E poi c’è Marina Abramovich, una performer. In ogni caso la vera ispirazione mi viene data dalla vita in generale e dalle piccole cose che ne fanno parte.
Come e in che quantità ti affidi a photoshop? Nel tuo primo periodo di attività ne facevi molto uso, per esempio i tuoi scatti abbondavano di cloni e i colori erano a volte molto forti. Oggi tutto questo non c’è più.
La mia attività iniziale era quella tipica di un’adolescente, di una giovane che si avvicina alla sua passione e che ha voglia di esplorarla in ogni sua sfaccettatura. Infatti colori molto forzati, cloni e temi fabieschi oggi non ci sono più. Con lo studio sono maturata e con gli anni ho cercato di creare un mio personale metodo di postproduzione basato molto sulla color correction, quindi sulla regolazione di colori, luci e contrasto senza ricorso a montaggi o ritocco di forme e linee. Questi interventi nelle mie immagini sono sicuramente visibili, ma cerco sempre di non oltrepassare il limite: non sto creando un’operazione grafica né lavorando su un dipinto, sono sempre consapevole che sto trattando una fotografia. Comunque sono convinta che i programmi di fotoritocco come photoshop siano davvero indispensabili per chi scatta in digitale. Se limitato a sé stesso lo scatto in raw è misero, non ha la stessa resa della pellicola. Questi programmi consentono di arricchire e valorizzare il prodotto finale avvicinandolo a ciò che vogliamo.
Come nascono i tuoi scatti, quanto lavoro c’è dietro?
Inizialmente tutto era istintivo, nasceva quasi per caso. Ora tutto ha inizio da uno studio lungo a volte anche mesi. Prima penso alla composizione, questa è una fase indispensabile: prima ancora che l’obiettivo inquadri il soggetto, la fotografia è già stampata nella mia mente. Poi il tempo dello scatto è breve, a volte mi bastano anche un paio di ore. I tempi invece tornano ad allungarsi con la postproduzione.
Con il capitolo degli “strangers” del progetto With you ho utilizzato ancora un metodo diverso, in quanto ogni immagine è stata progettata con la persona fotografata. Ad ognuno ho consegnato una usa e getta per fotografare oggetti e luoghi cari. La visione dei loro scatti è stato il punto di partenza per decidere insieme dove e quando realizzare le foto, arricchendole anche della loro personalità.
Infine Instinct, un lavoro intensamente poetico, molto diverso per temi e struttura dai progetti precedenti. Cosa ci puoi dire?
Instict è un lavoro nato spontaneamente, come una spinta interiore che mi ha portato a scattare fotografie senza ragionare sul loro significato. Dopo alcuni mesi passati a scattare liberamente e inconsciamente, ho realizzato il motivo per il quale stavo realizzando questa serie e così anche il suo senso. In breve, considero questi scatti la trascrizione visiva di tracce intime della mia mente.
Anna ha da poco ha vinto il concorso “A Human Touch – Life Framer”, grazie al quale avrà l’opportuntà di esporre a Londra entro la fine dell’anno.
Intanto, se capitate a Milano fino al 10 agosto trovate parte della sua serie Self-portrait in temporary houses in mostra presso la Galleria Carla Sozzani in Corso Como 10, all’interno della collettiva “A glimpse at Photo Vogue”.
Io, nel frattempo, vi consiglio di dare uno sguardo ai progetti completi sul suo sito.
– Eleonora Materazzo –
(Fotografie per gentile concessione di Anna Di Prospero – ogni riproduzione senza l’autorizzazione dell’autrice è vietata)