Essere donna, ieri e oggi – Intervista alla regista Alina Marazzi

Alina Marazzi è una delle personalità del cinema italiano più significative e caratterizzate degli ultimi anni. Dal punto di vista tecnico il suo stile è inconfondibile: utilizzo del film di famiglia e altri materiali di repertorio; impiego della voce fuori campo; predilezione per la forma diaristica che, violando gli scritti personali, svela la dimensione intima delle persone che vengono raccontate attraverso le loro stesse private parole. Dal punto di vista concettuale, la sua produzione rispecchia il suo interesse ad approfondire l’universo femminile e le mille sfaccettature e situazioni che lo contraddistinguono. Ho avuto l’onore e il piacere di incontrarla e discutere con lei della sua ideale trilogia sulla donna, composta dai suoi primi tre lungometraggi: Un’ora sola ti vorrei, del 2002, film-documentario in cui si ricostruisce la vita della madre della regista, Liseli Hoepli Marazzi, morta suicida negli anni Settanta quando Alina aveva appena 7 anni, usufruendo dei filmini di famiglia girati da suo nonno, e i diari e altri scritti a lei appartenuti; Per sempre, del 2005, lavoro nato da una ricerca che ruota intorno alla decisione di alcune donne di scegliere la vita di clausura e girato in due monasteri che hanno aperto le loro porte alle telecamere della troupe della Marazzi; infine Vogliamo anche le rose, del 2007, un documentario che segue la vita di tre ragazze vissute negli anni Sessanta e Settanta, ricostruita a partire dai loro diari dell’epoca e montata con materiali vari, dai filmati underground alle animazioni, fino ai fotoromanzi. Abbiamo inoltre parlato del suo ultimo film Tutto parla di te, uscito nelle sale lo scorso aprile e precedentemente presentato in occasione del Festival Internazionale del Film di Roma, edizione 2012, in concorso nella sezione CinemaXXi. Al termine del Festival, il 17 novembre, il film è stato insignito del Premio “La camera d’oro 2012” ad Alina Marazzi e a Gianfilippo Pedote, come miglior regista emergente e miglior produttore.

Come ha mosso i primi passi in questo campo, qual è stata la Sua formazione e come ha cominciato a fare questo lavoro?
A vent’anni ho frequentato una scuola di cinema a Londra. Negli anni Ottanta c’era molto fermento nel cinema inglese, nel senso che c’erano molti autori inglesi immigrati di seconda generazione che cominciavano a fare film. La scuola che ho frequentato formava cineasti, nel senso che l’approccio era naturalmente molto pragmatico essendo inglese ma insegnava allo studente a fare tutto, a svolgere tutte le fasi tecniche e non solo della realizzazione di un film, proprio per non voler settorializzare nella specializzazione dei ruoli. Tutto il mondo che ho assimilato viene da là: in Inghilterra ho avuto la possibilità di vedere molti film documentari e molte cinematografie extra europee, soprattutto del sud del mondo, per le quali in quel momento in Italia ancora non c’era molto interesse. In seguito ho ottenuto un finanziamento da FilmMaker (piccolo festival di Milano che utilizza i propri fondi per finanziare progetti di giovani autori) per la realizzazione di un documentario in Sicilia, e poi ho iniziato una collaborazione con una casa di produzione e a realizzare su commissione, in particolare per la televisione svizzera, documentari su argomenti sociali e culturali.

Inoltre Lei ha collaborato in diverse occasioni anche in campo puramente artistico.
Contemporaneamente ai documentari per la televisione ho cominciato a lavorare anche con Studio Azzurro, che è un gruppo di artisti che lavora con la video installazione e la video arte. Sono stata per loro assistente alla regia per il progetto di un lungometraggio e per un’installazione per la biennale di architettura. Anche questo periodo trascorso ha aperto altre prospettive, altri orizzonti, non solo legati alla produzione di un audiovisivo destinato allo schermo, grande o piccolo che fosse, ma proiettandomi all’idea di lavorare su delle narrazioni non più di stile classico, basato cioè solo su un piano lineare. Poi ho lavorato due anni per Fabrica, una specie di scuola voluta da Benetton in cui erano stati chiamati giovani talenti derivanti da diverse arti e discipline ad occuparsi di progetti personali. Qui ho avuto la fortuna di entrare in contatto con cineasti, fotografi e filmmaker provenienti da altre parti del mondo. La scuola era diretta da Godfrey Reggio, un regista che lavora solo con musica e immagini, senza parole né testi né attori. Tutti questi incontri mi hanno indubbiamente arricchita.

Un’ora sola ti vorrei nasce come una Sua ricerca molto personale, ma poi arriva al grande pubblico. Lei ha raccontato una storia privata, Sua e di Sua madre. Com’è avvenuto questo passaggio, questa apertura al pubblico, e come l’ha vissuta?
Questo film ha una storia speciale e tutta particolare, perché ha una genesi molta lunga. Prima di cominciare a lavorare al montaggio di queste immagini, avevo maturato il desiderio di fare questo film fondamentalmente per me e pensavo che sarebbe rimasto fruibile solo all’interno dell’ambito familiare. Lavorando però insieme a Ilaria Fraioli, la montatrice con cui ho collaborato anche nei miei successivi film, è stato inevitabile questo primo passaggio non più solo legato a me e alla mia dimensione privata, nel senso che condividendo il lavoro con un’altra professionalità è stato necessario esplicitare, esternare maggiormente quello che cercavo di fare con quel film. Nel corso dell’anno e mezzo che è stato necessario per montarlo ho attraversato diverse fasi, e mano a mano diventava sempre più compiuto come scrittura, come opera. Ci sforzavamo, nel realizzarlo e montarlo, di trattarlo come un film a tutti gli effetti, non come qualcosa di indefinito che avrebbe significato qualcosa solo per me. Mentre continuavano i lavori ho cercato dei finanziamenti per poterlo finalizzare e mi sono rivolta alle persone con cui avevo lavorato a Milano nell’ambito televisivo, e loro mi hanno aiutato nelle ricerche. Il fatto di mostrare un work in progress a dei possibili co-produttori mi ha esposto a mostrare un lavoro così personale ad altri. Il tutto è culminato poi con la proiezione al Festival di Locarno, dove il film è stato presentato, non senza una certa difficoltà da parte mia. Quando stavo terminando di montare il film, uno dei colleghi, amici e co-produttori che mi stava aiutando a finalizzarlo, lo mandò alla selezione del festival e venne scelto. Questa notizia mi mise molto a disagio perché comunque si trattava di mostrare il film, che si stava configurando come tale sotto tutti gli aspetti, sia narrativi che tecnici, ma comportava appunto di dover incontrare un pubblico e non sapevo quello che sarebbe successo. Dopo quella proiezione pubblica, da subito molto emotiva, molto d’impatto, il film ha avuto e continua ad avere una vita sua molto lunga e varia, e io ho dovuto accettare il fatto che fosse un’opera indipendente e autonoma da me, cosa a cui non ero preparata.

Ha parlato di una Sua responsabilità nel momento in cui ha reso pubblici questi diari e queste carte private. Inoltre, data la grande quantità di materiale fra cui scegliere, non solo scritto ma anche filmico, si è dovuta operare necessariamente una selezione e rendere di conseguenza noto il proprio punto di vista sulla vicenda.
Nel momento in cui ho operato una selezione e anche una concatenazione e messa in relazione di immagini, diversa da quella cronologica, ho operato sicuramente una mia visione delle cose. I filmati, girati da mio nonno materno, sono i classici filmati di famiglia che immortalano i momenti felici o i viaggi, gli avvenimenti familiari quali matrimoni o nascite. Il montaggio è stata una fase di scrittura per immagini che ha restituito la mia versione dei fatti, anche se nel film non si parla di fatti ma si descrive una persona.

In Per sempre le protagoniste sono le monache di clausura e la realtà in cui vivono, decisamente lontana dalla nostra. Si è preparata in qualche modo all’incontro con queste donne e questo mondo, attraverso per esempio delle letture, delle ricerche, degli approfondimenti?
Diciamo che è stata la curiosità la molla che mi ha portato a voler indagare quel mondo, un po’ perché durante le riprese di Fuori dal mondo, film di Giuseppe Piccioni del quale ero assistente alla regia, avevo incontrato delle novizie e chiacchierato con loro durante la realizzazione del backstage del film. Di queste ragazze mi aveva colpito la scelta, e da lì è nata un po’ l’idea di volere capire, andare a incontrare qualcuna di queste giovani donne che oggi compiono questa scelta che sembra così difficile, una scelta di fedeltà, una scelta che mi incuriosiva dal punto di vista anche intellettuale ed esistenziale: non essendo io religiosa, il mio approccio non è stato quello della religiosa o della storica. Ho utilizzato quella che è la prassi del documentario, cioè la ricerca sul campo, andando a parlare a tante diverse suore, monache, giovani, e cercando di capire quale era il loro percorso. Con il procedere di questi incontri si è delineato in me più chiaramente il desiderio di lavorare ad un documentario sulla clausura. Da lì la ricerca si è ristretta perché ho cominciato a contattare alcune madri superiori e badesse, e a incontrare diverse realtà monastiche.

Per Vogliamo anche le rose sono stati scelti tre diari tra molti altri. Cosa ha trovato in questi tre da farla spingere a sceglierli?
All’archivio di Pieve Santi Stefano ho letto circa una ventina di diari scritti da donne e uomini fra gli anni Sessanta e Settanta. La selezione non è stata molto difficile, in quanto si è indirizzata abbastanza rapidamente verso questi tre testi, che si sono distinti subito per la qualità della scrittura e per le personalità che raccontavano. Fra loro erano molto diversi come stile e come quantità di pagine. Il primo l’autrice comincia a scriverlo quando ha sette anni e termina quando ne ha diciotto, quindi c’è stato un grande lavoro di editing da fare. Il diario dell’aborto era molto breve. Infine c’è quello dell’ultima donna, questa femminista più militante, che è scritto nell’arco di un anno. Sia le persone che l’avevano scritto, sia ciò che raccontavano e come veniva raccontato era molto diverso.

Raccontare di aborto, di libertà sessuale (e anche omosessuale), di femminismo dopo quarant’anni dalle storie trattate: è un documentario di memoria o di attualità?
Per me è di attualità, nel senso che quando ho pensato al tema di quegli anni, l’intenzione era quella di rapportarlo fortemente al presente, cioè mi sembrava importante parlare di quei temi però pensando all’oggi, quindi non semplicemente facendo un lavoro storiografico, di descrizione di quegli anni, oppure fare un film a tesi, ma volevo nominare e andare a raccontare quei momenti in cui si è parlato di quegli argomenti, e la discussione in qualche modo ancora non è conclusa. Quando il film è uscito in sala ha avuto anche una certa risposta dal pubblico, perché secondo me c’è il desiderio di ricollegarsi a quegli anni e un po’ di ritornare a parlare di queste questioni che riguardano il corpo della donna, la libertà, la sessualità, questioni con cui tutte le generazioni di giovani uomini e donne si confrontano in un certo momento della loro vita. A me sembra che oltre a restituire l’atmosfera del tempo, il documentario dica qualcosa di noi oggi. Il film, a parte la cronologia finale, si interrompe alla fine degli anni Settanta, e idealmente sarebbe bello se qualcuno facesse il proseguo su quello che è accaduto dopo o fare un salto all’oggi. Sono argomenti su cui l’opinione pubblica negli ultimi anni si è interrogata, c’è stato un ritorno anche di gruppi di donne e di movimenti come Se non ora quando. È un momento in cui abbiamo bisogno di tornare ad indagare un po’.

Altrettanto attuale è il tema della donna oggetto, anche questo citato attraverso l’introduzione di una breve animazione, del quale oggi c’è più consapevolezza e sembra quasi, in molti casi, che si voglia diventare così.
La tua generazione nasce con una serie di riti acquisiti e modi di pensare, e probabilmente anche con l’idea che si è padroni della propria vita e del proprio corpo, cosa imprescindibile, poi però nei fatti mi chiedo: questo potere che le ragazze giovani hanno sul proprio corpo e che usano, che è anche sessuale, riescono effettivamente a gestirlo a loro beneficio o finiscono in qualche modo per essere donne oggetto? Sarebbe interessante se a questa domanda fosse posta alle tue coetanee.

Tutto parla di te è un po’ una novità essendo un film di finzione, ma sono rimasti degli elementi di continuità con lo stile dei lavori precedenti. Come mai questa scelta?
Tutto nasce ancora una volta dalla scelta del tema. Parlare della maternità e del disagio della maternità è un tema difficile da affrontare e al di là delle interviste che ho raccolto in fase di ricerca si rendeva necessario elaborare alcuni stati d’animo nel processo di scrittura, per questo si è pensato alla finzione e di conseguenza a scrivere una sceneggiatura. Si è partiti comunque da un lavoro di ricerca di tipo documentaristico: io ho approcciato il tema, il film, con la prassi del documentario facendo interviste, ricercando diari e immagini, raccogliendo testimonianze, ecc. Dopodiché alcuni di questi elementi raccolti sono confluiti e sono stati elaborati in una scrittura di sceneggiatura. Quindi il cinema di finzione è stato integrato con altri linguaggi come quello del cinema di realtà, l’animazione, la fotografia, il repertorio, proprio perché a me interessa continuare a lavorare su questa strada. È stata una scommessa ulteriore rispetto a Vogliamo anche le rose, e se si vuole anche più difficile perché ho dovuto far dialogare la finzione con questi altri generi.

Tutto parla di te rivela fin da subito la volontà di vestire non solo i panni dell’inchiesta, investigando le difficoltà della maternità e del suo rifiuto, ma si propone anche come film di memoria. Materiali di repertorio sono presenti e danno un forte carattere alle storie raccontate. Oltre a foto e filmati di famiglia, ci sono video-interviste realizzate a mamme che si erano rivolte a specifiche associazioni e altre testimonianze scritte in diari. A partire da queste, la Marazzi ha sviluppato una storia corale che si riflette nelle vicende dei personaggi del film. Il procedere delle vite delle due protagoniste interpretate da Charlotte Rampling ed Elena Radonicich, si mescolano alle interviste di donne che hanno vissuto e vivono il problema della depressione post-partum, arricchendo con materiali documentaristici, animazioni, fotografie, una storia che più vera non potrebbe essere, e oltrepassando più volte il confine che divide il mondo della realtà da quello della finzione.

– Eleonora Materazzo –

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